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Trasporti, la mobilità urbana sarà diversa dopo il lockdown: mobility manager sfida da non perdere

La ricerca e il progetto di un gruppo di aziende per portare allo sviluppo di soluzioni per la mobilità sicura e sostenibile dei dipendenti

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Nei giorni del lockdown un gruppo di ricercatori, imprenditori, esperti di comunicazione e mobilità (e molti altri) hanno condiviso la profonda preoccupazione che poco si stesse facendo per provare a ripensare strumenti e soluzioni per gestire la mobilità urbana nella fase due.

Se per la sanità è stato un trauma da dover gestire in corsa, per gli altri settori della sfera pubblica è diverso: il lockdown ha dato tempo (pochissimo) per prepararsi.
In futuro alcuni pilastri della nostra società come la giustizia, l’educazione e i servizi per la fruizione culturale saranno sicuramente investiti da importanti adattamenti, ma sarà il mondo dei trasporti e soprattutto del trasporto locale (pubblico o in concessione) a subire l’impatto più forte.

Il settore della mobilità è, infatti, quello che più di tutti nel mondo sta soffrendo la crisi Covid-19. A differenza di altri, i servizi di trasporto pubblico hanno dovuto continuare ad operare per garantire l’accessibilità delle nostre città a tutte le classi sociali.
Un diritto, quello di usufruire di “mezzi pubblici”, che è pensato per offrire uguali opportunità, tutelando i più deboli e salvaguardando l’ambiente.

Già a marzo il Ministero dei Trasporti italiano aveva emanato alcune linee guida per la sicurezza nei trasporti e nella logistica ed è evidente, visto il poco spazio dato al settore del trasporto locale, che il problema fosse molto difficile da affrontare in modo generalizzato.
Mentre i sistemi di controllo in stazioni e aeroporti sono già stati progettati e messi alla prova a causa del rischio terroristico, un controllo capillare su ogni singolo bus, tram o metro è materia nuova e necessita di un approccio ad hoc, azienda per azienda.
In Italia gli operatori sono centinaia, spesso operano in perdita. Nello stesso territorio sono in competizione tra di loro e pochissime di queste aziende sono strutturate per fronteggiare la crisi e, contemporaneamente, la “ricostruzione”.

Oggi, come da indicazioni del Ministero, nei mezzi si entra lontani dal conducente. Non si vendono né si controllano i biglietti a bordo.

Basta questo per evitare che i mezzi pubblici diventino luoghi di propagazione del contagio?
Alcune città, per far fronte alle difficoltà dei sistemi di trasporto condiviso, stanno sviluppando nuove piste ciclabili e adattamenti dello spazio urbano che possano garantire un’alternativa. Ma il timore è che chi potrà, utilizzerà la propria auto (l’Italia in Europa è seconda solo al Lussemburgo per numero di auto ogni mille abitanti), chi non avrà questo privilegio, sarà inevitabilmente spinto ancora più ai margini della società.

Riusciamo a immaginarne le conseguenze? Le strade vuote e l’aria pura dei giorni di quarantena saranno un triste ricordo in un ancora più triste futuro di traffico e aria irrespirabile. Autobus, tram e metro semivuoti a causa delle norme di distanziamento sociale, con dentro gli strati più poveri della nostra società sembreranno inutili e allora si dibatterà su come smantellare il servizio. Si incentiveranno le auto a basse emissioni ed elettriche ma, per garantire a tutti la possibilità di muoversi in sicurezza, si dovrà consentire anche ai modelli più vecchi di circolare. I collegamenti con le periferie e le aree periurbane saranno impossibili, le Ztl non avranno più senso, e in poco tempo ci troveremo seduti al sicuro ognuno dentro la propria auto, paralizzati in un traffico mai visto e in una società sempre più divisa. Se poi alcuni studi sulla correlazione fra coronavirus e inquinamento dovessero essere confermati, il futuro sarebbe addirittura grottesco.

Già a metà aprile il gruppo di ricercatori, imprenditori, esperti di comunicazione e mobilità (e molti altri) vista l’assenza all’interno della Task force di profili nell’ambito della mobilità, dell’architettura o del design dei servizi, avevano proposto di supportare la task force nazionale lavorando localmente sui temi della mobilità, affiancando le aziende di trasporto pubblico per aiutarle ad essere più agili, affrontare le difficilissime sfide della gestione del servizio e ad imparare più velocemente.

All’Italia, per salvare i trasporti pubblici e disinnescare la bomba, servirebbe coraggio.
Il coraggio di investire nell’innovazione dei sistemi di trasporto pubblico, accessibile e condiviso. Il coraggio di affrontare la mobilità pubblica e sostenibile come esperienza e non semplicemente come equazione fra domanda e offerta.

Il coraggio di adottare finalmente un approccio contemporaneo alla progettazione dei servizi, attraverso il design, le scienze del comportamento e della comunicazione.
Ma continuando il dialogo a livello locale con i tecnici delle aziende di trasporto e della Pa, sono emersi molti limiti circa l’approccio basato sui Dpcm.

Come era facile immaginarsi, linee guida generali su un tema tanto complesso risultano inutili e, nel cercare di seguire il ping pong normativo, in pochissimi hanno fatto la cosa che sembrerebbe più ovvia: chiedere localmente ai cittadini.

Ognuno, infatti, sceglierà come muoversi in funzione delle proprie esigenze, della propria percezione del rischio, del proprio concetto di convenienza. E ognuno, alle dovute condizioni, potrebbe accettare alternative all’auto privata.

Gli oltre quaranta firmatari della lettera alla task force, con la collaborazione dell’Ufficio della Resilienza Urbana del Comune di Milano, hanno lanciato quindi un sondaggio online per costruire profili di comportamento, di propensione al cambiamento e quindi meglio indirizzare gli sforzi per riprogettare l’esperienza di mobilità urbana. Parallelamente, grazie a Izi, società specializzata nei sondaggi d’opinione, la stessa ricerca è stata focalizzata su due contesti specifici: Milano e Torino.

La prima indagine a livello nazionale è stata lanciata il 23 aprile, tramite cui abbiamo raccolto più di 1.600 risposte. I dati sono aperti e consultabili a questo link.

L’analisi (qui i dati principali) conferma le preoccupazioni circa una minore propensione all’utilizzo di mezzi pubblici, ma che non si traduce automaticamente nel confinamento dentro l’auto privata. In questo momento, infatti, emerge una propensione a muoversi di più a piedi, in bici, bike-sharing, car-pooling, navette aziendali e car sharing.
E, alle dovute condizioni, neanche il mezzo pubblico è a priori escluso dalle possibilità.

La ricerca di Izi su Torino e Milano ha in parte confermato di fatto i risultati iniziali ed ha aggiunto dettagli molto interessanti sulle specificità dei due contesti urbani. Emerge nuovamente come la volontà dei cittadini sia quella di non rinchiudersi nella propria auto privata. A Torino, una delle città metropolitane italiane con la più alta concentrazione di automobile per abitante, i cittadini ritengono di poter addirittura ridurre del 4,6% l’uso della macchina.

Si tendono invece a preferire forme di micromobilità individuale, sia privata che sharing, a patto di poter usufruire di incentivi e percorsi dedicati e sicuri.
Anche i mezzi pubblici, nonostante una fisiologica perdita di fiducia, non sono esclusi a priori, purchè siano predisposti in modo da garantire ai passeggeri un ambiente sanificato e distanze adeguate.

I dati raccolti mostrano che, in entrambe le città analizzate, il mezzo scelto per recarsi a lavoro sia direttamente correlato alle infrastrutture e ai servizi presenti nelle vicinanze della sede lavorativa.

In riferimento allo smart working invece, si conferma che metà dei lavoratori potrebbe facilmente continuare a seguire le abitudini di questi mesi di quarantena. Spetta adesso ai manager e ai dirigenti HR più illuminati introdurre gli strumenti adeguati, superando le barriere, spesso culturali, che ne ritardano l’inserimento. Particolare attenzione è anche da riferire al contesto scolastico. Nelle due città infatti, circa il 34% degli intervistati ha figli in età scolare . Ciò dimostra che intervenire nelle scuole con iniziative di sensibilizzazione può portare benefici indiretti ad ampie fasce della popolazione.

E se il lockdown ha cambiato la percezione dello spazio urbano e la nostra propensione all’utilizzo dei sistemi di mobilità, nei mesi di stop il dato misurato in termini di impatto ambientale è sicuramente di importanza storica.

Si stima infatti che nei primi giorni di aprile le emissioni di CO2 siano diminuite del 17% rispetto a quelle registrate nello stesso arco di tempo del 2019. Si è quindi drasticamente invertita la crescita media annuale del +1%, tornando ai livelli del 2006. Il settore dei trasporti su strada è stato quello che, globalmente, più ha contribuito (43%) alla riduzione delle emissioni.

Attenzione però, perchè alla fine dell’anno le emissioni prodotte rispetto all’intero 2019 dovrebbero essere “solo” il 4% in meno. Inoltre, la storia insegna, dopo ogni grande crisi economica le emissioni tendono a ricrescere vertiginosamente (-1,4% nel 2009 e +5,1% nel 2010). Occorre un’azione combinata da parte dei governi affinché la ripresa dalla attuale crisi tenga conto anche delle variabili ambientali: la riduzione delle emissioni di CO2 deve diventare strutturale e guidata da politiche migliori.

Sembra quindi che la “domanda di mobilità” sia pronta al cambiamento e che sia proprio questo il momento giusto per investire con coraggio nei sistemi di mobilità sostenibile.
E sembra anche che i decision maker (Governo e ministero dei Trasporti) stiano cercando sistemi e soluzioni per incentivare la mobilità sostenibile responsabilizzando enti pubblici e privati e favorendo la sinergia fra l’offerta di servizi di mobilità e le infrastrutture disponibili sul territorio.

Provando a riassumere la strategia generale sulla mobilità contenuta nel Dl Rilancio emanato dal Governo prevede l’introduzione dei Mobility Manager (figure interne alle aziende con il compito di redigere un piano per facilitare la mobilità sostenibile dei propri dipendenti) anche in aziende con 100 dipendenti e con l’obbligo di presentare il Piano Spostamenti Casa Lavoro ogni anno entro dicembre.

Il Dl prevede inoltre che le Aziende di trasporto, grazie ad una prima iniezione di liquidità di circa 500 mln di euro (per coprire le perdite di questi mesi), garantiscano mezzi frequenti, cambi modali possibili e tempi di attesa accettabili e che i Comuni, attraverso i Mobility Manager d’Area, coordinino il matching tra l’offerta (i servizi di trasporto) e la domanda (tutti i cittadini) registrata dai Mobility Manager di aziende, enti pubblici e scuole…
Il tentativo è quindi di razionalizzare il problema, misurarlo attraverso la mappatura dei Mobility Manager di enti, aziende, università (figura introdotta più di 20 anni fa con il decreto interministeriale 27 marzo 1998 – Decreto Ronchi) e scuole (figura introdotta attraverso la legge 221 del 28 Dicembre 2015 art. 5 comma 6), e risolverlo attraverso varie misure che possono adattarsi a diversi contesti (ad es.: orari scaglionati di ingresso e uscita, piani di remote working e blended learning, servizi di mobilità ad hoc per target specifici o per servire aree interne, etc.).

Ma questa strategia, per quanto sensata, rischia di scontrarsi con la realtà.
Basterebbe parlare con qualsiasi Azienda italiana con più di cento dipendenti, o con una Scuola, un ente pubblico per scoprire che nominare un Mobility Manager per sviluppare il Piano Spostamenti Casa Lavoro è l’ultimo dei loro pensieri.
Mentre basterebbe parlare con un qualsiasi Mobility Manager per scoprire che dal 1998 ad oggi raramente le loro Aziende li hanno messi nelle condizioni di fare bene il loro lavoro.
Con una chiacchierata in Comune e con le aziende di trasporto pubblico, invece, risulterebbe immediatamente evidente che sono sopraffatti dagli eventi e spesso paralizzati dagli stalli politici/burocratici…

Insomma i Mobility Managers sono chiamati a un ruolo da protagonista per ripensare la mobilità in Italia, ma in realtà non esistono (se non sulla carta e per le aziende che devono rispettare la ISO 14001).

Ma allora come passare dalle parole ai fatti?

Alcune delle aziende presenti fra i firmatari del progetto, tra cui MUV, GreenShare, IZI e Ghella, hanno lanciato il progetto “Mobility Management Post Covid” per sviluppare processi semplici, gratuiti e collaborativi che possano guidare quante più aziende possibile allo sviluppo di soluzioni per la mobilità sicura e sostenibile dei loro dipendenti. È già online da diverse settimane una “Wiki” dove sono contenuti i primi metodi, strumenti ed esempi che possono sostenere Mobility Managers Aziendali e gli operatori di servizi di mobilità in questa sfida senza precedenti.

Ma per quanto sia utile il tentativo, senza un diretto interesse e soprattutto senza un sostegno efficace da parte delle istituzioni pubbliche sarà molto difficile che aziende, scuole ed enti pubblici si attivino e si coordinino autonomamente. Eppure esiste già uno studio preliminare recentemente pubblicato dal Politecnico di Milano che sottolinea, nella prospettiva del rientro a scuola e in ufficio a settembre, l’emergenza della situazione e come questa si possa disinnescare solo attraverso un’azione condivisa attraverso l’impiego dei Mobility Managers.

Ed esistono anche esempi di politiche pubbliche che hanno sostenuto in modo organico l’attivazione di tali figure, come fece ad esempio qualche tempo fa la città metropolitana di Torino attraverso un ufficio dedicato, o come si sta impegnando a fare la Regione Puglia proprio in questi giorni e proprio per fronteggiare la crisi covid.

La speranza è quindi che nel prossimo Decreto ministeriale siano descritte le modalità e soprattutto le risorse (sia in termini economici che di supporto) messe a disposizione per sostenere le attività di indagine, sintesi e negoziazione dei nuovi eroi della mobilità italiana.